
30 aprile 2010
29 aprile 2010
Secondo me la più bella canzone di San Remo

Una canzone d'amore - Max Pezzali

Se solo avessi le parole te lo direi anche se mi farebbe male se io sapessi cosa dire/ io lo farei io farei io lo farei sai Se lo potessi immaginare dipingerei il sogno di poterti amare se io sapessi come fare ti scriverei Una canzone d’amore per farmi ricordare una canzone d’amore per farti addormentare che faccia uscire calore che non ti so spiegare una canzone d’amore solo per te solo per te solo per te solo per te solo per te se un giorno io riuscissi a entrare nei sogni tuoi mi piacerebbe disegnare sulla lavagna del tuo cuore i sogni miei i sogni miei lo sai e se si potessero suonare l’inciderei e poi te li farei ascoltare se io sapessi come fare ti scriverei ti scriverei Una canzone d’amore per farmi ricordare una canzone d’amore per farti addormentare che faccia uscire calore che non ti so spiegare una canzone d’amore solo per te solo per te solo per te solo per te solo per te se io avessi le parole le potessi immaginare fosse facile spiegare si riuscissero a suonare se potessi raccontare se sapessi come fare se sapessi cosa dire allora ti scriverei Una canzone d’amore per farmi ricordare una canzone d’amore per farti addormentare che faccia uscire calore che non ti so spiegare una canzone d’amore solo per te Una canzone d’amore per farmi ricordare una canzone d’amore per farti addormentare che faccia uscire calore che non ti so spiegare una canzone d’amore solo per te
La Regina Scopettina
Aforisma
28 aprile 2010
Kahlil Gibran

Farò della mia anima uno scrigno per la tua anima, del mio cuore una dimora per la tua bellezza, del mio petto un sepolcro per le tue pene. Ti amerò come le praterie amano la primavera, e vivrò in te la vita di un fiore sotto i raggi del sole. Canterò il tuo nome come la valle canta l'eco delle campane; ascolterò il linguaggio della tua anima come la spiaggia ascolta la storia delle onde
W Badia
A New York dieci topi per abitante Si infilano ovunque: negli appartamenti e nei negozi, ovviamente. Ma anche nei motori delle auto. Sono i topi di Manhattan, orde che adesso hanno deciso di invadere anche uno dei più esclusivi quartieri della città, l'Upper East Side.A giudicare dalle denunce che fioccano alle autorità e sui quotidiani - l'avanzata dei roditori è stata riportata ieri sulle colonne del Wall Street Journal - New York è davanti alla più grave infestazione in decenni. Una scoperta che trova conferma nelle rilevazioni delle squadre incaricate dall'amministrazione comunale di tenere il conto di questa popolazione clandestina. La densità maggiore spetta al Distretto 12, la punta settentrionale di Manhattan ai confini con il Bronx: il 73% delle ispezioni organizzate dal Dipartimento della Sanità ha trovato indiscutibili tracce di ratti. E nel resto di Manhattan, Upper East compreso, la percentuale non è molto da meno: supera il 30% e spesso il 45 per cento.
Rispondendo alla Vals (che tutte le mattine che ne vedo uno mi sfotte per un quarto d'ora) ...W BADIA !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Almeno noi abbiamo una densità pari a
* 4 cinghiali * 3 bambi * 1 volpe pro capite!!!
27 aprile 2010
Speravo fosse passata...
Notizia di oggi ...
Applausi al super boss della 'ndrangheta. Una piccola folla ha invaso il centralissimo corso Garibaldi, a Reggio Calabria, bloccando il traffico, per salutare e 'rendere omaggio' a Giovanni Tegano, 70 anni, mentre veniva trasportato in carcere, dopo l'arresto avvenuto nella tarda serata di ieri alla periferia di Reggio Calabria. Ad attendere Tegano fuori dalla questura di Reggio Calabria c'erano oltre 100 persone, tra parenti e gente comune, tra cui molti giovani e bambini, che applaudivano il boss finito in manette dopo una latitanza di 17 anni. Prima i timidi applausi di un gruppo di persone radunate davanti alla Questura, poi la frase pronunciata da una donna: «Tegano uomo di pace» a cui il boss ha risposto con un cenno di saluto
Pensavo fosse passata questa bella e costruttiva pratica di applaudire boss mafiosi, di ogni genere e sorta...e invece mai dire mai...
Spero che andando avanti con il tempo non comincino a chiedere anche autografi e foto ricordo...
Vorrei - Lunapop

Vorrei, vorrei... esaudire tutti i sogni tuoi, vorrei, vorrei... cancellare ciò che tu non vuoi però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi... Vorrei, vorrei... che tu fossi felice in ogni istante vorrei, vorrei... stare insieme a te, così, per sempre però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi! E vorrei poterti amare fino a quando tu ci sarai sono nato per regalarti quel che ancora tu non hai, così se vuoi portarmi dentro al cuore tuo, con te io ti prego, e sai perchè... Vorrei, vorrei... esaudire tutti i sogni tuoi, vorrei, vorrei... cancellare ciò che tu non vuoi però, lo sai che io vivo attraverso gli occhi tuoi...
50 ESIMO POST
26 aprile 2010
Ristoshocking

Rita Pavone

Nuovo Libro

Cassandra messaggera di sventure
Cassandra è una figura della mitologia greca. È ricordata anche da Omero come una delle figlie del re di Troia Priamo e di Ecuba. Avuto da Apollo il dono della preveggenza, prevedeva terribili sventure ed era pertanto invisa a molti. Ancora oggi il suo nome è associato a persone che preconizzano eventi nefasti. Vi sono diverse versioni sull’origine del dono profetico di Cassandra. Secondo una prima versione, fu portata appena nata, insieme al fratello gemello Eleno nel tempio di Apollo e lì trascorsero la notte. Al mattino furono ritrovati coperti di serpenti che lambendo loro le orecchie, li avevano resi profeti. Secondo un’altra versione, la più famosa, Apollo, per guadagnare il suo amore, le donò la dote profetica ma, una volta ricevuto il suo dono, Cassandra rifiutò di concedersi a lui: adirato, il dio le sputò sulle labbra e con questo gesto la condannò a restare sempre inascoltata. Ancora bambina, alla nascita di Paride, predisse il suo ruolo di distruttore della città, profezia non creduta da Priamo ed Ecuba ma confermata da Esaco, interprete di sogni, che consigliò ai sovrani di esporre il piccolo sul monte Ida. Paride però si salvò e, quando divenne adulto, tornò a Troia per partecipare ai giochi e, durante la competizione, fu riconosciuto dalla sorella che chiese al padre e ai fratelli di ucciderlo, scatenando però la reazione contraria e facendo ritornare il giovane Paride al suo rango originale di principe. Profetizzò sciagure quando il fratello partì per raggiungere Sparta, predicendo il rapimento di Elena e la successiva caduta di Troia. Ritenuta una delle più belle fra le figlie di Priamo ebbe diversi pretendenti fra cui si ricordano Otrioneo di Cabeso e il principe frigio Corebo, morti entrambi durante la guerra di Troia, il primo ucciso da Idomeneo l’altro da Neottolemo (o Pirro, figlio di Achille). Quando il cavallo di legno fu introdotto in città, rivelò a tutti come al suo interno vi fossero soldati greci, ma rimase inascoltata. Solo Laocoonte credette alle sue parole e si unì alla sua protesta, venendo per questo punito dal dio Poseidone, che lo fece uccidere da due serpenti marini. La città fu così conquistata dai greci, che le diedero fuoco e massacrarono i cittadini. I membri della famiglia reale si rinchiusero nei templi troiani ma tutto ciò valse a poco. Priamo morì sull’altare del santuario ucciso da Neottolemo, mentre Cassandra, rifugiatasi nel tempio di Atena, fu trovata da Aiace di Locride e stuprata. Trascinata via dall’altare, si aggrappò alla statua della dea che Aiace, miscredente e spregiatore degli dei, fece cadere dal piedistallo. A causa del suo comportamento furono puniti tutti i principi greci, che non ebbero felice ritorno a casa. Lo stesso Aiace fu punito da Atena e Poseidone con la morte. Cassandra divenne quindi ostaggio di Agamennone e fu portata da lui a Micene. Giunta in città, profetizzò all’Atride la sua rovina ma quest’ultimo non volle credere alle sue parole, cadendo così nella congiura organizzata contro di lui dalla moglie Clitemnestra e da Egisto, nella quale morì la stessa Cassandra. Per antonomasia, si attribuisce l'appellativo di "Cassandra" alle persone che pur annunciando eventi sfavorevoli giustamente previsti, non vengono credute, e viene detta "sindrome di Cassandra" la condizione di chi formula ipotesi pessimistiche ma è convinto di non poter fare nulla per evitare che si realizzino
Elena la femmina
Elena è una figura della mitologia greca assunta, nell'immaginario europeo, a icona dell' eterno femminino. Proprio questa sua caratteristica archetipica fa sì che nell'immensa letteratura nata attorno alla sua figura, Elena non venga mai considerata responsabile dei danni e lutti provocati dalle contese nate per appropriarsi della sua bellezza. Sua madre Leda era sposata con Tindaro. Un giorno Leda venne rapita da Zeus camuffato da cigno. Da una contemporanea unione con Zeus e col marito nacquero Polluce e Elena, figli di Zeus, Castore, Clitennestra e Filonoe, figli di Tindaro. Elena fu allevata in casa di Tindaro e ancora giovinetta fu al centro di numerosi miti di seduzione: Teseo la rapì che era ancora fanciulla. Elena infatti era ritenuta la donna più bella del mondo, e poiché numerosi erano i pretendenti Tindaro lasciò che ogni decisione fosse della ragazza, onde evitare che una sua interferenza potesse causare una guerra. La scelta cadde su Menelao, re di Sparta; dalla loro unione nacque Ermione. La sorella Clitennestra sposò invece Agamennone, fratello di Menelao. I pretendenti e il «giuramento di Tindaro» Quando fu in età da marito, tutti i capi Greci pretesero la sua mano. Siccome la loro rivalità rischiava di generare un conflitto, su suggerimento di Ulisse, Tindaro sacrificò un cavallo sulla cui pelle fece salire i pretendenti per farli giurare che chiunque fosse stato il fortunato sposo, tutti avrebbero dovuto accorrere in suo aiuto nel caso qualcuno avesse tentato di rapirgli la sposa Quando era ormai moglie di Menelao, Elena venne rapita dal principe troiano Paride e il patto di solidarietà stipulato tra i pretendenti alla sua mano spinse gli stessi, con a capo Agamennone, a dichiarare guerra a Troia. Per vendicare il rapimento di Elena da parte del principe troiano Paride (al quale Afrodite aveva promesso la più bella delle donne), Menelao e suo fratello Agamennone organizzarono una spedizione contro Troia chiedendo aiuto a tutti i partecipanti al patto di Tindaro. Nell'Iliade, Elena è un personaggio tragico, obbligata ad essere la moglie di Paride dalla dea Afrodite. Nessuna colpa le può essere rinfacciata, data la sua incolpevole bellezza, anche se lei si dá la colpa della guerra che insanguina le mura di Troia Alla morte di Paride, Elena sposa il fratello Deìfobo. Controversa fu la sua fine. Nell'Odissea Elena appare riconciliata col marito e tornata a Sparta per regnarvi al suo fianco, anche se malvista dai sudditi. Si narra pure che Oreste avesse cercato di ucciderla. Secondo altre versioni ebbe una fine misera. Altre ancora la divinizzano insieme ai fratelli Castore e Polluce. Si racconta anche che fosse stata uccisa da Teti, madre di Achille, per vendicarsi della morte prematura del figlio. Un'altra versione vuole che, dopo la morte di Menelao, due figli naturali di costui cacciassero Elena e la costringessero a rifugiarsi presso Rodi, dove Polisso la fece impiccare per aver causato la morte di tanti eroi sotto le mura di Troia.
Il mito di Elena è descritto nell'Iliade e nell'Odissea, ma molti poeti successivi ad Omero modificarono il personaggio e la sua mitologia. Alcune leggende la indicano figlia di Nemesi, la dea della vendetta.
Paride il Vile
Paride accompagnò a Sparta il fratello Ettore, e qui furono ospitati dal re Menelao. Menelao aveva una bellissima moglie Elena, Paride se ne innamorò e fu ricambiato da questa. Insieme fuggirono a Troia e scatenarono la guerra. Dai loro amplessi nacquero quattro figli, Agano, Bugono, Corito e Ideo, e una figlia, Elena. Allo scoppio della guerra di Troia, Corito, figlio di Paride ed Enone, omonimo del figlio di Elena, giunse in città per difenderla dagli assalti degli Achei. Elena, colpita dalla sua raggiante bellezza, lo ospitò nel suo talamo suscitando l'ira di Paride il quale, geloso, uccise senza pietà il figlio. Nel corso della guerra Paride si dimostrò più volte vile e incapace di sostenere un duello con Menelao. Durante un combattimento contro il marito di Elena, Paride fu salvato dalla dea Afrodite. Paride era però un ottimo arciere, non mancava mai il bersaglio: quando Achille aveva ucciso Memnone e i Troiani erano in fuga verso le mura dalla città, Paride scoccò una freccia che, guidata da Apollo, andò a conficcarsi nel tallone di Achille uccidendolo. Dopo aver ucciso Achille, mentre Paride stava entrando in città attraverso le porte Scee, fu colpito più volte dalle frecce scagliate da Filottete. Morente, il giovane, chiese aiuto alla ninfa Enone, esperta in erbe curative, che si rifiutò di aiutarlo; quando ella ebbe in fine pietà di lui, la morte l'aveva già avvolto.Paride (greco: Πάρις; latino: Paris; detto anche Alessandro o Paride Alessandro) è una figura della mitologia greca, figlio secondogenito di Priamo, re di Troia, e di Ecuba. Principe troiano, esposto ancora neonato sul monte Ida a causa delle profezie funeste che lo accompagnarono sin dalla nascita, visse da pastore fino a quando non fu scelto dagli dèi affinché desse il suo giudizio sulla più bella fra le dee Era, Athena ed Afrodite. Riconosciuto dal padre, rientrò a corte e partì in missione diplomatica per Sparta, dove conobbe Elena, moglie di Menelao, la donna più bella del mondo: Afrodite per rispettare la promessa fattagli per ottenere il pomo d’oro fece innamorare la donna perdutamente dell'eroe. Paride rapì quindi Elena e la portò con sè a Troia. Nel corso della guerra che ne seguì, affrontò Menelao in duello e fu salvato dalla morte per intervento di Afrodite; in battaglia si distinse tra i migliori nel tiro con l'arco e fu destinato ad uccidere Achille.
Menelao il Valoroso
Figlio di Plistene o di Atreo e fratello minore di Agamennone, era re di Sparta; il suo nome significa, propriamente, 'colui che attende il popolo'. La sua celebrità è legata alla figura di ELENA, che egli sposò e dalla quale ebbe una figlia bellissima, Ermione (un altro figlio gli attribuiscono le fonti da una schiava: il nome tramandato è Megapente). Il rapimento di Elena mentre egli era assente da Sparta, ad opera di Paride, provocò la guerra di Troia. Durante il combattimento Menelao spiccò per il suo valore e uccise un gran numero di Troiani, anche se in prevalenza i poeti preferiscono descriverlo non come assetato di sangue e di vendetta, ma mite e calmo. Durante la guerra uno degli episodi celebri che lo ebbero a protagonista fu quello del suo duello con lo stesso Paride, che era stato l'autore del rapimento di Elena e a causa del quale si stava combattendo: Menelao stava per ucciderlo e l'avrebbe colpito a morte se Afrodite non gli avesse rapito l'avversario sotto gli occhi, avvolgendolo in una nube. Quando Troia fu presa, Menelao, accompagnato da Ulisse, si affrettò verso la casa di Deifobo, che aveva sposato Elena dopo la morte di Paride, sopravvenuta nel frattempo. Menelao in persona uccise Deifobo; secondo una versione del racconto, egli si scaraventò con la spada sguainata anche contro Elena, con l'intenzione di punire l'adultera; ma Elena si scoprì il petto ed egli non mandò a compimento il suo proposito. Secondo un'altra versione, invece, fu Elena ad introdurre segretamente Menelao nella stanza di Deifobo, consentendogli così di ucciderlo e riconciliandosi con il marito di un tempo. Menelao fu tra i primi a salpare da Troia dopo la caduta della città, accompagnato da Elena e da Nestore; ma passarono otto anni di vagabondaggi lungo le coste del Mediterraneo, prima che egli potesse raggiungere la patria. Da quel momento in poi, tuttavia, Menelao ed Elena, secondo la tradizione, trascorsero un'esistenza felice e tranquilla. Quando Telemaco, figlio di Ulisse, si recò a Sparta per cercare di raccogliere notizie a proposito di suo padre, Menelao stava celebrando le nozze della figlia Ermione con Neottolemo e di suo figlio Megapente con una figlia di Alettore. Secondo la profezia di Proteo nell'Odissea (4.561 ss.), Menelao ed Elena erano destinati a non conoscere la morte, ma a venir condotti dagli dei nell'Elisio. Secondo questa versione Menelao appare come una figura legata al mondo infero; secondo una versione diversa, invece, Menelao ed Elena si recarono nella Tauride, dove furono sacrificati da Ifigenia in onore della dea Artemide. Una versione della saga troiana, poi, sosteneva che Elena non fosse mai stata rapita da Paride, ma che a Troia si fosse recato un èidolon o immagine di lei; le conseguenze di questa versione si ripercuotono anche sulla figura di Menelao, che in tal caso avrebbe a lungo viaggiato per il Mediterraneo, trovando poi Elena in Egitto. Diffusione del culto Il culto di Menelao appare legato al mondo dell'oltretomba e lo vede strettamente unito ad Elena. In Arcadia gli erano sacri un platano e una sorgente; a Terapne, sull'Eurota, aveva un santuario, dedicato in realtà ad Elena, ma noto come Menelàion; qui Elena e Menelao erano celebrati come coppia regale infera. Presenze letterarie antiche Menelao è uno dei personaggi principali dell'Iliade omerica; il suo ritorno in patria e il suo lungo viaggio, durato otto anni, sono raccontati nell'Odissea (libro 4); nella Palinodia di Stesicoro e nell'Elena di Euripide è narrata la versione del mito secondo la quale non Elena, ma un suo èidolon sarebbe giunto a Troia. Menelao compare inoltre fra i protagonisti delle Ciprie, dell'Aiace di Sofocle e delle Troiane di Euripide.
Patroclo il buono
Fra gli eroi del poema, Patroclo è certamente uno dei più cari ad Omero per la sua giovinezza e gentilezza d’animo, per la devozione che lo lega ad Achille e per il suo coraggio che lo porterà a un fatale incontro con Ettore. Ma l’ immagine di Patroclo rimane impressa nel nostro animo non tanto per il valore di guerriero, quanto per la nobiltà e l’accettazione del sacrificio allorché veste le armi del più forte guerriero greco, cercando di rendersi degno della sua lode. Patroclo (greco: Πάτροκλος / Pátroklos o Πατροκλῆς / Patroklễs, letteralmente « la gloria (κλέϝος) del padre (πατήρ) »; latino: Patroclus o Patrocles) è una figura della mitologia greca, tra le più importanti nella guerra di Troia. Figlio di Menezio e di Stenele, era l'inseparabile compagno di Achille. Indossò le armi dell'amico quando questi, offeso da Agamennone, re di Micene, rifiutò di continuare a combattere contro i Troiani: presentatosi in battaglia in vece sua, Patroclo provocò scompiglio nelle file nemiche, che respinse vittoriosamente, ma venne ucciso da Ettore. Il desiderio di vendicare il compagno indusse Achille a riprendere la guerra e ad uccidere lo stesso Ettore in duello. Patroclo è una delle personalità di maggior spicco dell'Iliade di Omero. Personaggio di grande bontà e dolcezza, costituisce una novità in un mondo di eroi che non conoscono altre virtù oltre alla forza. La tradizione più autorevole, sostenuta da Omero, afferma che Patroclo era figlio di Menezio, re di Opunte, nella Locride.[1][2] Una tradizione erronea, talvolta posta in alternativa a questa prima, attribuisce la paternità dell'eroe ad Eaco.[3] Costretto ad abbandonare la sua città, si rifugiò presso Peleo e divenne amico e (secondo alcune interpretazioni del periodo classico ed ellenistico) amante inseparabile di Achille. I due giovani si recarono insieme alla guerra di Troia, e quando Achille si ritirò dalla battaglia, Patroclo indossate le sue armi, ne prese il posto, portando scompiglio nelle schiere avversarie. Ma non tenne conto del consiglio dell'amico, ovvero limitarsi a respingere i troiani presso l'accampamento, e per questo in un primo momento Apollo lo stordì, poi Euforbo lo ferì con un colpo di lancia e infine Ettore gli diede il colpo di grazia. Le ceneri del suo corpo furono messe accanto a quelle di Antiloco (ucciso da Memnone) e di Achille, dopo che costui fu ucciso da Paride. Spogliato delle armi, il cadavere di Patroclo viene conteso dai due schieramenti nel corso di una lotta furiosa che si conclude solo con l’arrivo di Achille: al suo grido, i troiani fuggono verso le mura della città in preda al terrore. Sconvolto dal dolore, dopo aver organizzato i giochi funebri in onore dell’amico, Achille riprende il combattimento. Achille che cura Patroclo, vaso con figure rosse del pittore di SosiaNell'Iliade Patroclo è una figura abbastanza particolare: infatti le sue caratteristiche dominanti sono la bontà e la dolcezza, un fatto abbastanza inusuale se si pensa agli altri eroi del poema, come Achille o Ettore, forti e coraggiosi. Molti personaggi lo lodano, come Briseide, che lo definisce "sempre dolce", e persino i suoi cavalli lo piangono, poiché era stato un buon auriga per loro. Un episodio che evidenzia la gentilezza di Patroclo è quello descritto nel libro XVI (versi 1-100), in cui egli corre in lacrime da Achille, dicendo che molti Achei stanno morendo in battaglia e altri sono feriti; si preoccupa, quindi, della sorte dei suoi compagni. Inoltre il poeta lo apostrofa spesso, tradendo una certa simpatia per il suo personaggio.
Ettore il giusto
Ettore (greco: Ἕκτωρ; latino: Hector) è una figura della mitologia greca, figlio di Priamo, re di Troia, e di Ecuba. Era sposo di Andromaca e padre di Astianatte. Nell'Iliade Ettore è il deuteragonista del poema di Omero. È la classica figura leale e generosa nei confronti del prossimo. Ettore è il personaggio del giusto, l'antagonista di ogni sorta di ingiustizia nel mondo, e la figura di chi, per non lasciare che altri prendano il sopravvento da vigliacchi, li annienta per salvare la sua gente e la sua patria. Chiunque abbia cara la propria incolumità psichica e fisica, sappia che questi è il difensore di ciò. Ettore resterà per sempre l'eroe della giustizia, il motore del piacere, il distruttore del male e di ogni persona malata di perfidia che circonda questo mondo. Partecipò alla guerra di Troia e fu il principale difensore della città prima di essere ucciso in combattimento da Achille. Le sue vicende sono narrate principalmente nell'Iliade di Omero, di cui è uno dei personaggi principali. La fama dell'eroe omerico rimase viva anche in epoca post-classica, e nel Medioevo egli fu ritenuto esemplare per la sua piena adesione agli ideali cavallereschi: venne infatti inserito tra i nove prodi.
Il principe troiano era un uomo di cuore, compassionevole e valoroso, ma anche in grado di onorare i nemici. Da moltissimi autori Ettore viene considerato come l'eroe per eccellenza, che non utilizzando nessun strumento magico e non essendo assistito dagli dei combatteva con fierezza avversari temibili, nel suo essere semplicemente uomo
L'iroso e coraggioso Achille
Achille era figlio del mortale Peleo, re dei Mirmidoni di Ftia (regione nel sud-est della Tessaglia) e della nereide Teti. Il protagonista del poema, è l’immagine dell’eroe per eccellenza, “uomo di straordinaria forza, di null’altro desideroso che della gloria conquistata in guerra”; bellissimo, alto, biondo, è impulsivo e sincero, fino all’impudenza, facile all’ira ed eccessivo in tutte le manifestazioni esteriori, guidato com’è da passioni incontrollabili ed elementari. Eppure in lui compaiono a volte venature di malinconia struggente e di tenerezza: sa commuoversi e commuovere con la musica e il canto e come un bambino, nei momenti di tristezza, sente il bisogno di sua madre, la ninfa Teti. Per questo va a piangere sulla riva del mare da cui la dea giunge “veneranda” a consolare il figlio, quella “creatura” così straordinaria, ma destinata a una breve vita, breve, ma gloriosa come l’aveva voluta lui. Zeus e Poseidone si erano contesi la mano di Teti fino a quando Prometeo (o, secondo altre fonti, Temis) profetizzò che la ninfa avrebbe generato un figlio più potente del padre. Per questo motivo essi dovettero rinunciare alle loro pretese e costrinsero Teti a sposare Peleo. Esiste una versione alternativa data da Le Argonautiche[1] nella quale Era allude alla resistenza e al rifiuto di Teti alle avance di Zeus, per rispetto al legame matrimoniale Era-Zeus. Nel poema incompleto Achilleide di Publio Papinio Stazio del I secolo, c'è una versione che non si trova in altre fonti, in base alla quale Teti, quando Achille nasce, per renderlo immortale, lo immerge nel fiume Stige, tenendolo per un tallone: il bambino diviene così invulnerabile tranne nel tallone che non era stato immerso nell'acqua del fiume (cfr. Tallone di Achille). Non è chiaro se questa versione di Stazio fosse nota in precedenza. In un'altra versione, Teti unge il bimbo con l'ambrosia, mettendolo sul fuoco per bruciarne le parti mortali del corpo. Viene però interrotta da Peleo che strappa con violenza il piccolo Achille dalle sue mani: il bambino rimane ustionato a un tallone e Teti, furibonda, abbandona entrambi. Peleo, con l'aiuto del centauro Chirone, sostituisce il tallone ustionato di Achille con l'astragalo (osso del tallone) del gigante Damiso, celebre per la sua velocità nella corsa: da qui l'appellativo di piè veloce (podas ôkus) con cui l'eroe viene anche identificato. Comunque, c'è da dire che nessuna delle fonti antecedenti Stazio fa riferimento alla sua invulnerabilità. Al contrario, nell'Iliade, Omero narra di un Achille ferito: nel libro XXI, l'eroe peonio Asteropeo, figlio di Pelegone, sfida Achille nei pressi del fiume Scamandro. Egli, ambidestro, scaglia due lance alla volta e la seconda colpisce Achille al gomito, facendogli sgorgare del sangue: sfiora coll'altro il destro braccio dell'eroe, di nero sangue lo sprizza. Neanche nei poemi epici greci del ciclo troiano dove compare una descrizione della morte dell'eroe, Cypria, Etiopide, la Piccola Iliade e l'Iliou persis (La caduta di Ilio), c'è traccia della sua invulnerabilità o del suo famoso tallone. In alcuni successivi dipinti su vaso che raffigurano la sua morte, una o più frecce trafiggono il suo corpo. Peleo affidò Achille al centauro Chirone sul Monte Pelio per la sua crescita ed educazione.
Sul Pelio, il fanciullo ricevette le cure della madre del centauro Chirone, Filira, e di sua moglie, la ninfa Cariclo. Chirone provvedette anche a cambiargli il nome in Achille; prima infatti era stato chiamato Ligirone, che significava "piangente". Teti richiama Achille dal Centuro Chirone, 1770, dipinto di Pompeo Batoni, San Pietroburgo, Ermitage.Quando fu più grande, cominciò a esercitarsi nella caccia e nell'addestramento dei cavalli, e parimenti nell'arte medica. Inoltre, imparava a cantare e a suonare la lira, mentre Chirone lo addestrava alle antiche virtù: il disprezzo dei beni di questo mondo, l'orrore della menzogna, la moderazione, la resistenza alle cattive passioni e al dolore. Il Centauro lo nutriva esclusivamente di midolla di leone e di cinghiale selvatico, per trasmettergli la forza di questi animali, e di conseguenza per renderlo coraggioso e forte; gli veniva invece somministrato miele e midollo di cerbiatto per renderlo agile e veloce, ma anche per dargli dolcezza e persuasione. Chirone gli insegnò l'uso perfetto della forminx come strumento musicale, mentre la Musa Calliope lo istruì nel canto e anche nell'arte della pittura. Le doti del giovane eroe si rivelarono già da sei anni quando, grazie ai consigli del suo maestro centauro, uccise il suo primo cinghiale. Da quel momento il Pelide iniziò a portare continuamente nella grotta del centauro un continuo di prede abbattute. La sua bionda capigliatura splendeva al sole durante le corse, quando braccava, raggiungeva ed abbatteva i cervi senza l'aiuto dei cani. Le sue doti stupivano persino le divinità Atena e Artemide, sbalordite dalla grazia e dalle capacità di quel fanciullo così piccolo. Durante questo periodo di educazione alla vita guerriera, Achille ebbe un inseparabile compagno, Patroclo, il quale, benché fosse più grande di lui per età, non gli era superiore né per la forza, né poteva vantare una nobile origine. Sempre in contemporanea alle cure di Chirone, Achille apprese dal precettore Fenice l'arte dell'eloquenza e l'utilizzo adeguato delle armi. Secondo la tradizione omerica, il Pelìde trascorse la sua giovinezza a Ftia, insieme al padre Peleo e all'anziano Fenice, che molto lo amava e lo considerava come un figlio; il poema ricorda anche il tenero episodio in cui Fenice offriva del vino al giovane eroe, ma quest'ultimo spesso lo risputava sulla sua tunica, ancora troppo giovane per poter gustarlo. Sin da bambino, gli dei che da molto lo ammiravano e conoscevano bene il destino che attendeva quell'eroico ragazzo, lo avevano avvisato del futuro che l'avrebbe seguito. Gli fu chiesto se preferisse vivere a lungo senza gloria e sconosciuto a tutti o avere una vita breve e famosa per le imprese che avrebbe compiuto, il giovane Achille scelse quest'ultima, così il suo destino fu segnato.
Ulisse l'astuto mentitore
Ulisse è considerato la personificazione della furbizia, nonché il primo e il più grande dei bugiardi...Ma quand’è che il nostro beneamato eroe, celebre per i suoi inganni, a partire dal famosissimo cavallo con cui ingannò i troiani e via via con tutte le altre astuzie grazie alle quali scampò alla morte nel suo lungo viaggio di ritorno verso Itaca, iniziò a dire le “bugie” che lo hanno poi reso il più furbo degli uomini? Sembrerebbe che abbia esordito giovanissimo, addirittura la sua stessa nascita nasconderebbe una menzogna. Infatti, sebbene tutti lo conoscano come figlio di Laerte, re di Itaca, e di Anticlea, figlia del famoso ladro Autolico, Ulisse era in realtà figlio di Sisifo e Anticlea. Il mito racconta che Autolico e Sisifo, i due ladri più furbi e famosi conosciuti a quel tempo, vivevano sul monte Parnaso. Autolico era, per così dire, “figlio d’arte” in quanto il padre era addirittura Hermes, dio protettore, tra gli altri, anche dei ladri. Un bel giorno Autolico volle dimostrare di essere più furbo di Sisifo e gli rubò alcuni capi di bestiame portandoli nelle terre di sua proprietà. Ma Sisifo, astutamente, aveva ferrato il suo bestiame in modo che lasciasse una traccia su cui era scritto: “mi ha rubato Autolico” e grazie a questa astuzia scoprì il furto. A questo punto, come spesso accade nel mito, le versioni sono due: una racconta che Autolico stesso abbia offerto la figlia Anticlea a Sisifo, in modo da unire il loro sangue “astuto” ed assicurarsi come discendenza diretta il più furbo degli uomini; l’altra invece sostiene che Autolico, per farsi perdonare il furto, ospitò Sisifo presso di lui per una notte e questi, non ancora soddisfatto, volle vendicarsi usando violenza alla figlia. Sta di fatto che Ulisse, tra i suoi antenati, può vantare un padre ed un nonno considerati tra i più furbi degli uomini e un bisnonno che era il più furbo degli dei: Hermes. Si racconta poi che Autolico sia giunto ad Itaca poco dopo la nascita di Ulisse e che, dopo un banchetto, lo abbia poggiato sulle sue ginocchia; a questo punto, sembra che Anticlea abbia detto: “Dagli un nome, o padre” e Autolico abbia risposto: “Nel corso della mia vita mi sono messo in urto con molti principi e chiamerò dunque mio nipote Odisseo, che significa il Rabbioso, perché sarà la vittima delle mie antiche inimicizie. Tuttavia semmai salirà al monte Parnaso per rimproverarmi, gli cederò parte dei miei possedimenti e placherò la sua ira”. Ulisse effettivamente tentò, una volta raggiunta l’età matura, di far visita al nonno, ma durante una battuta di caccia fu ferito da un cinghiale e non riuscì a raggiungere Autolico; questi, comunque, si curò molto del nipote e gli diede i doni promessi, con i quali Ulisse fece ritorno a Itaca. In verità anche sull’origine del nome “Odisseo” ci sono diverse versioni, ma noi ci limitiamo a citare solo questa per tener fede alle parole di Autolico. Ma torniamo alle bugie di Ulisse. Ce n’è una curiosa: avrete sicuramente sentito qualche volta il detto “fare il pazzo per non andare in guerra”; Ulisse fu, con ogni probabilità, il primo a metterlo in pratica o, almeno, a provarci. Un oracolo gli aveva predetto: “Se andrai a Troia, tornerai dopo vent’anni, solo e in miseria”. Se a questa nera profezia dell’oracolo aggiungiamo che gli era da poco nato il figlio Telemaco, appare ancora più comprensibile il motivo per cui Ulisse non avesse nessuna voglia di andare a combattere a Troia insieme agli altri re greci; ecco perché, quando vide arrivare a Itaca Agamennone, Menelao e Palamede, giunti lì apposta per portarlo con loro a Troia, si mise un cappello da contadino in testa e iniziò ad arare un campo mettendo insieme un bue e un asino e gettando all’indietro manciate di sale. Inoltre, per rendere ancora più credibile la sua follia, finse di non riconoscere gli amici. Ma, sfortunatamente per lui, Palamede intuì l’inganno, strappò dalle braccia di Penelope il piccolo Telemaco e lo appoggiò a terra, proprio davanti al bue e all’asino. Ovviamente, Ulisse tirò immediatamente le redini per fermare i due animali e non uccidere il suo unico figlio, dimostrando così di non essere affatto pazzo e partendo necessariamente per Troia. Ma Ulisse non dimenticò il danno ricevuto dall’intuizione di Palamede. Inoltre, Palamede ferì per una seconda volta l’orgoglio di Ulisse durante l’assedio di Troia. Quando l'eroe di Itaca, su ordine di Agamennone, si recò in Tracia alla ricerca di provviste, ne rientrò a mani vuote e al rimprovero di Palamede rispose che lui non avrebbe fatto meglio. Palamede invece partì e rientrò con una nave carica di provviste, dando così un brutto colpo all’ amor proprio di Ulisse che si vendicò sotto le mura di Troia e proprio con un altro dei suoi famosi inganni. Passati alcuni giorni, infatti, Ulisse fece pervenire un messaggio ad Agamennone, comandante dell’intera spedizione, dicendo di aver avuto un sogno in cui gli dei avvisavano i greci che c’era un traditore tra loro e che perciò bisognava spostare l’accampamento per un giorno ed una notte; a questo punto Ulisse attese che Agamennone desse disposizioni di spostare l’accampamento e, di nascosto, seppellì un sacco d’oro dove prima c’era la tenda di Palamede; inoltre, costrinse un prigioniero frigio a falsificare una lettera come se fosse stata scritta da Priamo, re dei troiani, a Palamede; nella lettera era scritto: “l’oro che ti ho mandato è il prezzo da te richiesto per tradire i Greci.” Quindi, per completare il suo astuto piano di vendetta, ordinò al prigioniero di consegnare la lettera a Palamede, ma lo uccise al confine dell’accampamento greco, prima che questi potesse consegnarla. Il giorno dopo, quando l’accampamento greco fu riportato dov’era in precedenza, il corpo del prigioniero con la lettera fu ritrovato e il presunto traditore fu condotto davanti alla corte marziale; ovviamente, Palamede negò l’accaduto e lo fece con tanto vigore e disperazione che qualcuno iniziò a credergli. Ulisse, a questo punto, suggerì di perquisire la tenda di Palamede, dove venne ritrovato l’oro da lui stesso messo in precedenza. Palamede, viste le false prove sparse da Ulisse, venne condannato a morte per tradimento e, prima di essere lapidato, gridò forte: “O verità, io piango la tua morte che ha preceduto la mia” ed è con queste parole che è ricordato dalla storia come il primo caso celebre di “malfunzionamento” della giustizia. Ulisse scova achille ma Ulisse era tanto bravo a “costruire” gli inganni quanto a scoprirli. Quando la ninfa Teti nascose il figlio Achille, vestendolo da donna, tra le figlie di Licomede perché conosceva il destino di morte a cui sarebbe andato incontro se fosse partito per Troia, fu proprio Ulisse a scoprire il travestimento. Avendo ricevuto insieme ad Aiace e Nestore l’incarico di trovare Achille e portarlo a Troia, Ulisse donò alle fanciulle vesti e ornamenti tra cui nascose degli armamenti, quindi ordinò di far squillare le trombe di guerra per far sentire il suono delle armi. Achille non seppe resistere a quel richiamo di guerra, si denudò il petto, afferrò le armi poste tra i doni e si preparò alla battaglia, quindi promise di partire per Troia con i suoi temutissimi Mirmidoni. Un altro dei suoi inganni, Ulisse lo mise a segno durante la seconda riunione in Aulide che precedette la partenza della spedizione greca. Secondo una profezia, i greci non sarebbero potuti partire per Troia se Agamennone non avesse sacrificato ad Artemide la più bella delle sue figlie, Ifigenia. Agamennone era comprensibilmente restio a offrire il sacrificio alla dea e come giustificazione addusse la certa contrarietà della moglie Clitennestra . Ma i re greci minacciarono di abbandonarlo e tornarsene a casa e quando Ulisse fece finta di arrabbiarsi moltissimo e di salpare per Itaca, intervenne Menelao. Questi propose di ingannare Clitennestra inviando Ulisse e Taltibio a prelevare Ifigenia, dicendo alla madre che dovevano condurla in Aulide per darla in sposa nientemeno che ad Achille. Ovviamente, la scelta di Ulisse come messaggero non fu casuale; chi avrebbe saputo mentire meglio di lui alla madre di Ifigenia? Achille si indignò molto nel sapere che il suo nome era stato usato, per di più a sua insaputa, per un inganno così meschino e che avrebbe significato la morte di una dolce fanciulla, ma per il resto della storia vi rimandiamo alle tragedie di Euripide Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride. Ma facciamo un salto temporale e torniamo sotto le mura di Troia. Qui la battaglia infuriava con alterne fortune ma, dopo la morte di Achille, ai greci un po’ demoralizzati fu predetto dal “solito” oracolo che Troia non sarebbe mai caduta se, tra le altre cose, non fossero riusciti a rubare il Palladio di Atena dalla Cittadella di Troia. E qui il furbo Ulisse ne inventò un’altra delle sue: disse a Diomede di malmenarlo brutalmente e, ricoperto di sangue e stracci, chiese asilo a Troia dicendo di essere uno schiavo fuggiasco. Con questo stratagemma Ulisse riuscì ad ingannare tutti e a rubare il Palladio di Atena, almeno secondo alcuni. In realtà, in questa occasione, il nostro eroe fu anche piuttosto fortunato; il suo travestimento, infatti, non riuscì ad ingannare Elena ed Ecuba, ma entrambe giurarono di non svelare il segreto permettendo a Ulisse di tornare sano e salvo all’accampamento greco. Sempre durante la guerra di Troia, Ulisse è protagonista di un altro inganno in cui coinvolge il figlio del celebre Achille, Neottolemo. Ma partiamo dall'inizio. Dopo la morte del loro campione, Achille, l'oracolo aveva predetto ai greci che non avrebbero espugnato Troia se non si fossero uniti a loro il figlio del grande Achille, Neottolemo, e Filottete con il suo arco e le sue frecce. Atena per spiegare meglio l’importanza dell’arco e delle frecce di Filottete, bisogna dire che gli erano stati dati in dono nientemeno che da Eracle, il quale in tal modo lo aveva ringraziato di aver acceso la sua pira funebre.
Inizialmente Filottete partì per Troia insieme agli altri re greci con sette navi, ma fu abbandonato sull’isola di Lemno su consiglio di Ulisse in quanto una sua ferita, provocata da un serpente (secondo alcuni inviato da Era per punirlo di aver acceso la pira di Eracle) emanava un odore insopportabile. Filottete era comprensibilmente adirato con i suoi compagni, che lo avevano abbandonato su un’isola deserta, e in particolare con Ulisse. Eppure a chi, se non all’astuto Ulisse, potevano rivolgersi i greci per trovare il sistema di far tornare Filottete con il suo arco a combattere con loro ed espugnare Troia? L'eroe troiano partì dunque, insieme a Neottolemo, per Lemno con un preciso piano: una volta giunti sull’isola, Neottolemo avrebbe finto di essere anche lui molto adirato con i greci, colpevoli di averlo prima convocato a Troia, sostenendo che l’oracolo reputava indispensabile la sua presenza affinché Troia cadesse, e poi di aver lasciato le armi del suo celebre padre a Ulisse anziché a lui e che quindi lui aveva abbandonato il campo di battaglia e stava tornando a casa. Neottolemo inizialmente era molto restio ad agire in un modo così meschino; così come suo padre Achille, era un eroe giusto e leale che affrontava sempre a viso aperto il nemico e ripudiava il combattimento a distanza, quindi rinfacciò a Ulisse di aver ordito un piano vile , ma questi riuscì a convincerlo con un discorso da alcuni definito una vera e propria “teoria della bugia”. Neottolemo, seguendo il piano di Ulisse, riuscì a conquistarsi la fiducia di Filottete e a farsi consegnare l’arco e le frecce di Eracle, ma la sua natura di eroe leale e onesto gli impedì di portare a conclusione il tutto e, dopo un’aspra discussione con Ulisse, peraltro da lui salvato dai propositi di vendetta di Filottete che aveva già teso il suo celebre arco per ucciderlo, rivelò a Filottete la verità e gli riconsegnò l’arco e le frecce chiedendogli di seguirlo a Troia e di espugnarla insieme a lui, così come predetto dall’oracolo. Filottete era molto combattuto finché scese Eracle dall’Olimpo per risolvere la situazione. La bellezza degli ingannevoli discorsi di Ulisse a Neottolemo e il modo in cui Eracle risolse il tutto sono splendidamente narrati da Sofocle nella tragedia Filottete. Ma torniamo sotto le mura di Troia e veniamo al più famoso degli inganni di Ulisse: il cavallo di Troia. Tutti ne conoscono il mito e tutti sanno che, grazie a questo inganno, i greci espugnarono Troia dopo dieci lunghi anni di guerra. Ma non tutti sanno che l’ispirazione di costruire il famoso cavallo per ingannare i troiani, Atena non la diede al suo protetto Ulisse, bensì a Prilide; fu lui, infatti, secondo alcune versioni, a proporre l’idea di costruire un cavallo per oltrepassare le mura di Troia ed Epeo, figlio di Panopeo, si offrì di costruirlo sotto la direzione di Atena in persona. Ulisse poi, da furbo qual era, ne rivendicò la paternità quando fu ospite di Alcinoo, re dei Feaci, così come si racconta nell’Odissea. Ma, sempre restando all’episodio del cavallo di Troia, Ulisse perfezionò l’inganno dando istruzioni affinché le tende fossero bruciate e le navi simulassero la partenza restando nascoste al largo di Tenedo e lasciando il solo Sinone a completare l’inganno. Ulisse acceca Polifemo vale la pena spiegare che anche Sinone era un “valido bugiardo” di degna discendenza, essendo cugino di Ulisse e nipote di Autolico. Sapendo ciò, si può più facilmente comprendere perché Ulisse scelse proprio lui per il suo astuto piano. Sinone, infatti, si fece trovare sulla spiaggia dai troiani e raccontò loro, come suggeritogli da Ulisse, di essere a conoscenza del segreto della morte di Palamede e che perciò Ulisse aveva tentato di ucciderlo usando come pretesto una profezia di Apollo; questa profezia, infatti, diceva che il dio non li avrebbe fatti partire se non fosse stato effettuato un altro cruento sacrificio umano come quello già consumato, di Ifigenia in Aulide, al momento della partenza dalla Grecia. Sinone, quindi, disse ai troiani che Ulisse lo aveva proposto come vittima del sacrificio al fine di eliminare un testimone scomodo; quindi continuò il falso racconto suggeritogli dal cugino Ulisse, dicendo di essersi salvato grazie al vento improvvisamente propizio e alla confusione che ne era seguita per la precipitosa partenza delle navi dei suoi, ormai ex, compagni. Priamo, a questo, punto iniziò a credere alle parole di Sinone e gli chiese ulteriori informazioni circa il cavallo costruito. Sinone spiegò, sempre seguendo l’astuto piano di Ulisse, che dopo il furto del Palladio, perpetrato proprio da Ulisse, lo stesso Palladio aveva iniziato a trasudare e per ben tre volte era andato in fiamme, quindi l’indovino Calcante, interpretando ciò come risultato della collera di Atena, aveva consigliato di tornare in Grecia lasciando un dono propiziatorio alla dea, per l’appunto il cavallo famoso. Ma le bugie che Ulisse aveva ordinato di dire a Sinone in merito al cavallo non finiscono qui; infatti Priamo, sempre più convinto da Sinone, gli chiese perché fosse stato costruito così grande e Sinone rispose che i Greci non volevano che il cavallo entrasse nelle mura di Troia, perché Calcante aveva predetto loro che se il cavallo fosse entrato nella città di Troia, essa avrebbe esteso il suo potere in Asia e in Grecia, mentre se lo avessero profanato sarebbero stati distrutti da Atena stessa. Le parole di Sinone sembravano aver completamente convinto Priamo, ma non convinsero il sacerdote troiano Laocoonte, il quale sembra si fosse accorto che in esse vi era l’astuzia di Ulisse, al punto che esclamò: “Queste sono bugie e suonano come se fossero state inventate da Odisseo”. Quindi consigliò al suo re di lasciargli sacrificare un toro a Poseidone e di bruciare il cavallo; ed è così che sarebbe andata se non fosse intervenuto Apollo, il quale inviò due serpenti dal mare; questi, dopo aver ucciso i due figli di Laocoonte e Laocoonte stesso, si posizionarono ai piedi della statua di Atena nella Cittadella troiana; questo intervento divino convinse i troiani che Sinone aveva detto il vero e l’inganno di Ulisse riuscì perfettamente, come tutti sanno. Un’altra delle bugie di Ulisse è relativa ad un episodio meno noto del sacco di Troia. Durante il saccheggio che seguì la conquista, il “concubinaggio”, per così dire, dei greci con le donne troiane era frequente, e Aiace il Piccolo tentò di consumarlo con Cassandra, la quale, però, era riuscita a scamparla abbracciandosi alla statua di Atena. Successivamente, Agamennone volle Cassandra per sé e Ulisse lo appoggiò dicendo che Aiace aveva posseduto Cassandra nel tempio di Atena, commettendo così anche un sacrilegio. Naturalmente era una bugia che Ulisse aveva detto per compiacere il grande Agamennone, ma a quel punto Aiace fu additato di sacrilegio e Calcante chiese un sacrificio per placare la dea. Ulisse usò, quindi, la stessa scusa suggerita in precedenza a Sinone per convincere i troiani sulla bontà di quanto diceva e propose di lapidare Aiace, ma questi fuggì e si rifugiò nel tempio di Atena e lì giurò che Odisseo, come di consueto, aveva mentito e, confortato dalla testimonianza di Cassandra, evitò la morte. PolifemoConclusa la conquista di Troia, i greci fecero rientro in patria ognuno con alterne vicende; quelle di Ulisse sono diventate celebri grazie a Omero che ce le ha narrate splendidamente. Una delle più note, tra le avventure che Ulisse ha affrontato nel suo lungo viaggio di ritorno, è quella presso l’isola dei Ciclopi. La vicenda è talmente famosa che non ci soffermeremo a ricordarla. Citeremo, solo perché attinente al tema che stiamo trattando, la celebre bugia che Ulisse disse al ciclope Polifemo. Questi, dopo aver mangiato alcuni dei compagni di Ulisse, intendeva ringraziarlo del vino datogli, divorandolo per ultimo e a tal fine gli chiese quale fosse il suo nome e, come tutti sanno, Ulisse rispose “mi chiamo Oudeis”, cioè Nessuno. In tal modo, quando Polifemo uscì dalla grotta chiedendo aiuto ai suoi fratelli e questi gli domandarono chi lo avesse accecato, lui rispose “Nessuno”, provocando l’ilarità dei fratelli che lo credevano delirante di febbre. Ulisse poi riuscì ad uscire dalla grotta di Polifemo grazie ad un altro trucco: Polifemo aveva un gregge di montoni che faceva pascolare ogni mattina; Ulisse legò ognuno dei suoi compagni sotto il ventre di uno di essi, ma lo fece con delle aste di vimini legate ad altri due montoni ai lati, in modo da distribuire il peso e fare in modo che l’uomo fosse sotto l’ariete centrale; per se stesso, invece, utilizzò il capo del gregge, un grande ariete al quale si aggrappò con le braccia e le gambe. Con questo astuto espediente Ulisse riuscì a fuggire insieme ai suoi compagni. Ma in questa vicenda c’è anche da sottolineare che, per una volta, furono i compagni a richiamare Ulisse che, in un impeto d’orgoglio, mise da parte la sua proverbiale astuzia quando rivelò al Ciclope il vero nome di chi lo aveva accecato, provocando la reazione di Polifemo e di suo padre Poseidone, temuto dio del mare che già aveva un conto in sospeso con Ulisse. Proseguendo nel suo lungo viaggio di ritorno, Ulisse si ritrovò sull’isola di Eolo, il Re dei venti, il quale, dopo averlo accolto regalmente, gli donò un otre contenente tutti i venti tranne quello necessario a riportarlo a casa; ma Eolo chiese a Ulisse se fosse inviso a qualche altro dio e Ulisse rispose di no; egli sapeva bene che Poseidone, padre di Polifemo ed imparentato anche con Palamede, aveva promesso vendetta, ma il suo desiderio di rientrare a Itaca era tale che lo portò a mentire anche al dio. Ulisse, però, nonostante l’inganno, non riuscì a raggiungere Itaca perché a poca distanza dalla spiaggia i suoi compagni, convinti che nascondesse dei tesori, aprirono l’otre contenente i venti, ritrovandosi così in balia di una micidiale tempesta che li riportò da Eolo, ma questi, scoperto che Ulisse gli aveva detto il falso, si rifiutò di aiutarlo nuovamente. Infine, dopo le altre innumerevoli avventure narrate da Omero nell’Odissea, Ulisse raggiunse Itaca. Sulla spiaggia incontrò un pastorello e, memore di quanto suggeritogli da Tiresia e Agamennone durante il viaggio nel mondo dei morti (concessogli dalla maga Circe prima di farlo ripartire dalla sua dimora), non gli rivelò la sua reale identità ma, fingendo di essere un cretese in fuga, gli raccontò una lunga e falsa storia. Non poteva sapere che quel pastorello in realtà non era altri che la sua protettrice, la dea Atena, la quale, dopo aver sentito il suo falso racconto, lo accarezzò e sorridendo gli disse: “Sei davvero un meraviglioso bugiardo”, aggiungendo che era stato talmente abile nel mentire e che le sue menzogne erano così credibili, che lei stessa avrebbe creduto alle sue parole se non fosse stata a conoscenza della verità. Atena, poi, consigliò a Ulisse di non rivelare subito la sua identità e lo aiutò a travestirsi da mendicante. Così travestito, Ulisse giunse dal suo fedele porcaro, Eumeo, al quale raccontò un’altra falsa storia; lì lo raggiunse il figlio Telemaco di ritorno da Sparta, ma anche a lui Ulisse non rivelò la verità finché non glielo consentì Atena, poi insieme a Eumeo e ad Atena, visibile solo a lui, su consiglio della dea si aggirò fra i Proci per rendersi conto di chi fossero i pretendenti al suo trono. Il principale di questi era Antinoo di Itaca al quale Ulisse, sempre sotto le spoglie di mendicante, narrò una ulteriore falsa versione della sua storia. Ulisse, quindi, continuò a presentarsi a tutti sotto le false spoglie di un mendicante, anche alla stessa Penelope; alla moglie, infatti, raccontò di aver visto Ulisse, il quale gli avrebbe detto che si stava recando a Dodona a consultare l’oracolo di Zeus per poi fare rientro a Itaca. L’unica a scoprire la sua identità, oltre al fedele cane Argo che, come tutti saprete, morì dalla gioia quando rivide il suo padrone, fu la vecchia nutrice Euriclea la quale, nel lavargli i piedi come ordinatogli da Penelope, notò la cicatrice che Ulisse aveva sulla gamba, ma questi la afferrò per la gola imponendole di non rivelare il suo segreto. L’inganno di Ulisse durò fino al giorno seguente quando, alle pressanti richieste dei pretendenti al trono, Penelope, ispirata da Atena, rispose che il successore di Ulisse sarebbe stato colui il quale fosse riuscito a scagliare una freccia, con l’arco di Ulisse, facendola passare attraverso i dodici anelli delle asce messe in fila. Come molti di voi sicuramente sapranno, nessuno dei Proci riuscì neanche a tendere l’arco e tutti protestarono quando il “mendicante” chiese di poter provare anche lui; lo insultarono pesantemente, ma il “mendicante” non si tirò indietro e, ovviamente, riuscì nell’impresa, quindi rivelò a tutti la sua vera identità e, con l’aiuto del figlio Telemaco e dei due servi Eumeo e Filezio, si vendicò uccidendoli uno per uno. Ultimata la sua vendetta, Ulisse si ricongiunse con la sua famiglia e, finalmente, raccontò loro la vera e avventurosa storia del suo ritorno a Itaca. Ma gli inganni di Ulisse non finiscono qui. Infatti, portata a termine la sua vendetta nei confronti dei Proci, Ulisse fece preparare una festa in modo da far credere agli abitanti di Itaca che Penelope avesse scelto il suo nuovo sposo. Il giorno dopo si recò, insieme a Telemaco, Eumeo e Filezio, dall’anziano padre, Laerte, ritiratosi nella sua casa di campagna; anche a lui Ulisse non rivelò la sua vera identità e si presentò come uno straniero che aveva ospitato Ulisse cinque anni prima. Ma la sua narrazione dei fatti disperò il vecchio Laerte al punto da farlo piangere; a ciò Ulisse non riuscì a resistere oltre e rivelò al padre la verità stringendolo in un forte abbraccio. Ulisse e Penelope come abbiamo visto, Ulisse era un maestro degli inganni; scaltro, ingegnoso, estremamente furbo, mentì a compagni, re e persino dei, come nel caso di Eolo e Atena. Usò la sua proverbiale capacità di ingannare per molteplici motivi: per vendicarsi come nel caso di Palamede, per difendersi come nel caso di Polifemo, per uno scopo individuale come nel caso di Eolo, o comune anche ai suoi compagni come nel caso del cavallo di Troia o di Filottete, o anche, come alcuni sostengono nel caso di Laerte, per il semplice piacere di mentire. Ma noi riteniamo che Ulisse sia riuscito in un ultimo, difficilissimo inganno. Il suo multiforme ingegno” e le sue “bugie” sono state narrate per millenni, giungendo a noi e a chi verrà dopo di noi, permettendogli di entrare nell’immortalità del mito e perpetrare il più grande dei suoi inganni: quello ai danni della morte. Il suo mito, infatti, non morirà mai.
Sono quello che sono
(Eugenio Finardi)Sono quello che sono
23 aprile 2010
Come si chiamavano?
Coinvolgimento
Week end

22 aprile 2010
Timidezza...

21 aprile 2010
CHIARIMENTO SUL SONDAGGIO
20 aprile 2010
Sondaggio
L'idea della vita
16 aprile 2010
L'uomo sulla luna

La promessa di Barack Obama "Entro il 2035 l'uomo su Marte"
Io sono nata quando tutto era già successo, ho rivisto le immagini, ho sentito le voci, ho visto la bandiera a stelle e strisce sventolare sul suolo lunare...ma sono immagini vecchie...troppo vecchie...sono passati quasi 40 anni!
Come mai nessuno c'è più tornato?
Possibile sappiamo già tutto della Luna e che non ci siano altre cose da scoprire?
Non sarà forse vera quella teoria del complotto lunare ("Moon Hoax") secondo la quale è stata tutta una montatura Holliwoodiana per contrastare l'avanzata sovietica e dare un nuovo spirito alla popolazione Americana?
A me sembra impossibile che nessuno abbia più voluto (o più probabilmente forse non sia riuscito) a tornare sulla Luna...adesso rilanciano Marte...chi sarà l'astronauta Brad Pitt?
baby73
Arezzo

Piazza grande, la regina dei sapori Sabato 17 e domenica 18 aprile nell’ambito delle “Piazze del Gusto”, la manifestazione dedicata alle eccellenze enogastronomiche della terra d’Arezzo Ristoranti all’aperto, maxigrigliata di bistecche e salsicce, le specialità dei macellai, i pani e le schiacciate dei fornai aretini: grazie alla coreografia degli stand e dei tavoli imbanditi per due giorni rivivono le atmosfere dell’antico mercato in piazza Le “Piazze del Gusto” di Arezzo ritrovano piazza Grande. Il cuore del centro storico, off limits lo scorso anno a causa dei restauri in corso, quest’anno tornerà ad accogliere l’allegra coreografia di stand e tavole imbandite con ogni specialità della gastronomia locale. Così, sabato 17 e domenica 18 aprile la piazza rivivrà almeno per due giorni l’atmosfera di festa dell’antico mercato cittadino, ricco di gente, colori, profumi e sapori. La speranza, soprattutto degli operatori che piazza Grande la presidiano tutto l’anno dalle vetrine delle loro attività, è che l’area torni ad essere frequentata dagli aretini. Che in questi mesi, dopo il trasferimento del Tribunale alla nuova sede, l’hanno un po’ trascurata nelle loro abitudini di passeggio. I turisti continuano a frequentarla, merito del suo fascino indiscusso, ma non bastano loro a renderla vitale, soprattutto nei mesi di bassa stagione. Nel prossimo fine settimana, quindi, le “Piazze del Gusto” offrono l’occasione giusta per rilanciare la piazza agli occhi dei residenti. “È anche a questo che servono manifestazioni come “Le Piazze del Gusto”, sottolinea Franco Marinoni, direttore della Confcommercio di Arezzo, l’organizzazione che insieme alle altre associazioni di categoria del commercio, dell’artigianato e dell’agricoltura (Confesercenti, CNA, Confartigianato, Coldiretti, Cia e Confagricoltura) ha realizzato l’evento con il sostegno di Provincia, Comune e Camera di Commercio di Arezzo. “Il programma di attività del Centro Commerciale Naturale ha l’obiettivo di promuovere il centro storico e la sua rete di attività economiche, ma anche di far riscoprire ai residenti il gusto di frequentare gli spazi dentro le mura. Cosa offrono in più rispetto ai moderni centri commerciali? Bellezza, storia e occasioni uniche di socializzazione”. Saranno tre i protagonisti principali della due-giorni del gusto in piazza Grande: macellai, panificatori e ristoratori. I macellai riproporranno l’attesissima maxigriglia, dove dal pomeriggio del sabato fino alla sera della domenica cuoceranno bistecche, salsicce e rigatino, da servire con i pani e le schiacciate dei panificatori aretini. Poi, la novità di quest’anno: oltre alle carni arrostite, i macellai proporranno altre specialità della tradizione, come lo stufato alla sangiovannese e la trippa. Non mancherà una ricchissima offerta di salumi tipici, tutti da gustare e acquistare: dalla porchetta della Valdichiana alla tarese del Valdarno o al prosciutto di maiale grigio casentinese, tanti insaccati per fare il giro del gusto nelle 4 valli aretine senza muoversi dalla città. Per chi ama un’offerta ristorativa meno spartana, arrivano in soccorso i tre ristoranti di piazza Grande (Le Logge Vasari, La lancia d’oro e La Curia), che contribuiscono alle Piazze del Gusto trasferendo in parte i propri locali all’aperto. Nelle “isole” a loro disposizione, i locali accoglieranno i clienti con la cura di sempre – apparecchiature di prim’ordine e inappuntabile servizio al tavolo – ma con la sorpresa di prezzi più contenuti, allineati a quelli degli altri stand delle Piazze del Gusto: 4 euro per un piatto di crostini, 6 euro per un primo, 7 per il secondo e 4 per il dolce. In pratica, lo stesso listino applicato dall’Associazione Cuochi nella maxitenda di piazza Risorgimento. I ristoranti di piazza Grande hanno già predisposto i propri menù per le due giornate. Leggerli vale già a stimolare l’appetito. Tra gli antipasti, campeggiano i classici crostini misti e la panzanella, oppure flan di abbucciato, tortino di spinaci su vellutata di zafferano di Cortona, tomino con raviggiolo del Casentino, favette e rotolini di verdure primaverili, crostatina di spinaci e squaquerone con salsa di zafferano. Tra i primi, ignudi di ricotta e spinaci, gnocchi di patate rosse di Cetica, lasagne con ragù di chianina e crema di abbucciato, pici tirati a mano, paccheri con zucchine novelle e fiori di zucca, gnocchetti con fonduta di formaggio al tartufo. Per il secondo, la proposta varia dall’ossobuco in gremolada di verdure allo stinco di maiale all'etrusca o in salsa chiantigiana con verdure brasate. Anche i dolci parlano aretino, tra gattò, tiramisù e budino di riso.
15 aprile 2010
Vacanze
Organizzano viaggi in Francia, in Gran Bretagna e qualcuno anche nella laguna Veneta...non serve la patente nautica e si vedono le cose da un altro punto di vista...
Se qualcuno ha già provato questa vacanza alternativa mi faccia sapere...
Baby73
Aforisma Amore
14 aprile 2010
Capelli bianchi

13 aprile 2010
Sondaggio
Oggi niente notizie positive...
12 aprile 2010
Buona notizia di oggi...anzi OTTIMA
Cibi etnici
